Su tutele e licenziamenti cambia il passo

Jobs Act, giurisprudenza, referendum. Si sta componendo un quadro diverso.

Nelle ultime settimane, due recenti sentenze della Corte Costituzionale richiamano interpreti e operatori del diritto a riflettere sui possibili, probabili cambiamenti  in materia di diritto del lavoro. Quali potrebbero essere gli impatti delle “novelle” giurisprudenziali?

Mentre la differenza in materia di licenziamenti fra le forme di tutela previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e quelle disciplinate dal D.Lgs. n. 23/2015 – prevista per lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 – sta venendo meno, la nuova interpretazione estensiva della Corte sta portando all’applicazione della reintegrazione del lavoratore anche quando il fatto contestatogli sia sanzionato dal CCNL con una sanzione conservativa.

In primis, la Corte costituzionale, con sentenza n. 128 del 2024, ha stabilito che l’art. 3, comma 2, del decreto legislativo numero 23 del 2015 è incostituzionale in quanto esclude la possibilità di reintegra dei lavoratori nei casi di giustificato motivo oggettivo nei quali sia dimostrata l’inesistenza del fatto posto alla base del licenziamento da parte del datore di lavoro. La non sussistenza del fatto, secondo la Corte, “determina un difetto di sistematicità che rende irragionevole la differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo”.

Resta esclusa, comunque, la reintegra del lavoratore nell’ipotesi in cui sarebbe potuto essere ricollocato (c.d. obbligo di repêchage).

L’art. 3 del D. lgs. 23/2015 che disciplina i licenziamenti illegittimi per mancanza di giustificato motivo oggettivo prevede la sola indennità risarcitoria, dichiarando estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento.

Tuttavia, se è vero che la ragione d’impresa posta alla base del giustificato motivo oggettivo di licenziamento non è sindacabile nel merito – al fine di garantire la libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost – il fatto allegato dal datore deve comunque pur esserci.

In secundis, grazie a una interpretazione adeguatrice della legge, con la sentenza di rigetto numero 129 del 2024 la Corte ha stabilito che la tutela reintegratoria debba avere luogo anche nei casi di licenziamento disciplinare avvenuti a causa di condotte per le quali la contrattazione collettiva preveda sanzioni conservative.

Fino adesso al contrario di quanto affermato dalla Corte nella sentenza n. 129, il giudice si asteneva da qualsiasi valutazione circa l’eventuale sproporzione tra il licenziamento intimato al lavoratore e la gravità dei fatti contestati.

La Corte Costituzionale ripristina da un lato la reintegrazione nel posto di lavoro per i c.d. licenziamenti economici e dall’altro prevede la reintegra del lavoratore licenziato per un fatto illecito punito con una sanzione meno grave dal CCNL applicabile.

Questa interpretazione riduce radicalmente l’impatto del Jobs Act, la cui principale caratteristica era proprio la previsione di tutele indennitarie in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro.

Le due sentenze potrebbero rendere inammissibile il primo quesito del referendum proposto dalla Cgil proprio in materia di licenziamenti.

Il quesito, volto all’abrogazione delle norme del Jobs Act che hanno introdotto il contratto a tutele crescenti, alla luce delle modifiche subite dalla norma, secondo gli operatori del diritto potrebbe non avere più senso di esistere. 

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